Sii il cambiamento che vuoi vedere nel mondo

#borse rosa, #brasile, #casa dos sonhos, #empowerment femminile, #volontariato

Ci sono storie che ci permettono di viaggiare in luoghi lontani e di conoscere nuove realtà. A volte, però, queste realtà non sono come ce le immaginiamo: è questo il caso delle bambine e delle donne di Paraìba, che vivono all’interno della loro comunità una situazione di emarginazione, vulnerabilità sociale e povertà. È Raffaella Fuso, nostra volontaria da oltre dieci anni, a portarci con lei in Brasile e a farci conoscere più da vicino questa difficile situazione. Lo fa a partire dalla sua visita al centro comunitario “Casa dos Sonhos”, creato da una comunità di Suore Domenicane con l’aiuto della nostra Fondazione e situato a circa 20 km dalla capitale Joao Pessoa, precisamente nel punto finale della cittadina di Santa Rita.

 

Una dura realtà, tra povertà e violenza

Il centro può essere considerato un’oasi felice: con l’obiettivo di accogliere e sostenere bambini, ragazzi, donne e famiglie della comunità che vivono una situazione problematica, offre programmi e attività di prevenzione, assistenza, formazione ed educazione basati sulla solidarietà, la giustizia e la valorizzazione della persona e dell’ambiente che la circonda.

Purtroppo la situazione cambia completamente non appena si esce al suo esterno.
Come ci racconta Raffaella, “le periferie si trovano fuori controllo e la quasi totale assenza dello Stato – che significa fra le altre cose assenza di diritti, servizi e sicurezza – sta portando sempre più persone oltre la soglia della povertà estrema, costringendo uomini, donne e bambini a mendicare o a raccogliere materiale da riciclare per poter sopravvivere. Nella maggior parte di queste famiglie la madre è di fatto l’unica fonte di sostegno di diversi figli e il piccolo contributo, denominato Bolsa Familia, è l’unica entrata economica certa rispetto ai pochi lavori irregolari e saltuari che si possono trovare.”

 

Foto di Raffaella Fuso

 

La violenza è sicuramente uno degli aspetti più preoccupanti che contraddistingue le periferie brasiliane e che Raffaella ha potuto vedere da vicino: “parliamo di violenza domestica sulle donne e i bambini, di violenza sociale legata alle devianze e alla povertà educativa e soprattutto della violenza delle organizzazioni criminali contrapposta a quella della polizia, che ogni giorno uccide quasi indiscriminatamente decine di persone. Le vittime di tutto questo restano uomini, donne e bambini costretti a vivere in un clima continuo di precarietà e paura.”

In un contesto difficile come quello appena descritto, dove l’emarginazione sociale si unisce alla violenza e alla mancanza di opportunità, c’è un altro aspetto ancora più difficile da accettare, presente ancora in molti Paesi del mondo e di cui la nostra volontaria si fa testimone: le bambine, se possibile, vivono condizionamenti ancora più forti. Responsabilizzate fin da piccole ad accudire i fratellini minori e vittime di una cultura a cui non interessa vederle studiare e realizzarsi in qualcosa che vada oltre il futuro ruolo di moglie e madre, si trovano destinate a un futuro già scritto. L’alto numero di violenze domestiche, matrimoni e maternità precoci e, non ultimo, il numero di femminicidi non fanno altro che confermare questa forte discriminazione di genere.

 

La “Casa dei Sogni”: un’oasi di pace e speranza

Nel contesto in cui è inserita, la “Casa dos Sonhos” rappresenta dunque l’unico punto di riferimento valido in grado di garantire i principali diritti e curare l’educazione, la salute e la sicurezza degli oltre 130 minori accolti, offrendo loro un’assistenza affettiva e sociale in grado di contrastare violenza, povertà e pregiudizio.

 

Foto di Raffaella Fuso

 

La “Casa dos Sonhos” è uno spazio in cui i bambini e gli adolescenti, seguiti da una preparata e variegata equipe di professionisti e volontari, possono mangiare, imparare, giocare, sognare e trovare un po’ di serenità rispetto al duro contesto in cui sono immersi quotidianamente. Raffaella può testimoniare quanto il Centro sia “un luogo che favorisce momenti di condivisione, di riflessione, di dialogo e di crescita verso la costruzione di una identità e di un futuro migliore – per i bambini e gli adolescenti accolti e per la comunità in cui vivono.”

Fondato nel 2004, il centro è oggi una realtà molto radicata nel territorio, esempio concreto e positivo di come l’educazione, l’integrazione e la creazione di una cultura di pace e rispetto possano nascere e svilupparsi, cambiando profondamente la qualità e le prospettive di vita di molte persone.

“Senza la presenza della “Casa dos Sonhos” – spiega Raffaella – tutti i bambini e gli adolescenti avrebbero trascorso il tempo per strada, potenziali vittime di droga, alcolismo, prostituzione e violenza. Tra le mura del centro, i minori trovano punti di riferimento sani, regole e limiti che li orientano, per evitare che il contesto e i cattivi comportamenti li conducano alla marginalizzazione.”

Il nostro aiuto, fornito attraverso i progetti ‘Una Casa dei Sogni contro la marginalizzazione’ e ‘Borse rosa per le ragazze di Santa Rita’ risulta fondamentale per il proseguimento delle attività del centro e il benessere di tutte le persone coinvolte.

 

L’empowerment femminile: un sogno che diventa pian piano realtà

È grazie al programma di Empowerment femminile che nel 2019 dodici ragazze e otto madri della comunità hanno potuto frequentare due corsi professionalizzanti per diventare “Grafici” e “Amministratore di cassa”. Sempre nell’ambito di questo progetto, alcune ragazze sono state coinvolte come volontarie nel centro e forniscono supporto alle diverse attività che vengono svolte giornalmente. La “Casa dos Sonhos” si conferma dunque essere un punto di riferimento per le famiglie e le madri della comunità, che qui possono trovare aiuto e assistenza in relazione alle numerose difficoltà incontrate ogni giorno.

“Questo il cambiamento che vorremmo vedere nel Mondo – conclude Raffaella. Un cambiamento volto alla creazione di una cultura di pace, integrazione, solidarietà reciproca, rispetto della natura e lotta contro il ciclo di violenza domestica e comunitaria. Questo è l’aspetto più difficile del lavoro del centro e il suo valore aggiunto: formare coscienze responsabili e insegnare il concetto di eguaglianza.”

 

Foto di Raffaella Fuso

 

Far battere un cuore: una responsabilità che riguarda tutti

#cuore di bimbi, #medici, #missione, #volontariato

“Certe esperienze sono così intense ed emozionanti che l’ostacolo più grande potrebbe essere quello di non riuscire a trovare le parole giuste per descriverle – parole che diano onore a ciò che ho visto e provato.”

Eppure Veronica Ruzzon, nostra volontaria da un paio di anni, quelle parole le ha prima cercate e poi trovate, tale e tanto forte era la voglia di raccontare la missione in Zambia a cui ha partecipato nel 2018 e insieme di ringraziare le persone incontrate, con cui ha condiviso quella che definisce l’esperienza più bella della vita.

 

Partire per una parte del mondo diversa, dove nulla è scontato

Veronica è partita a novembre insieme ai medici volontari del programma Cuore di Bimbi:

“persone straordinarie capaci di lasciare la propria famiglia, moglie e figli, per portare vita e speranza in posti del mondo dove non si ha possibilità di scegliere quasi nulla.”

Parti del mondo in cui tutto ciò che noi diamo per scontato, come la disponibilità di acqua e corrente, non lo è più. E in cui proprio per questo, alla fine, delle scelte importanti devono essere compiute, con etica, professionalità, nel rispetto del contesto e degli equilibri già presenti. Al gruppo di medici volontari arrivati in Zambia è bastato meno di un giorno per capirlo.

“In ospedale, già in tarda mattinata, l’acqua non c’era più: venivano preparati dei bidoni per tamponare la situazione. E così anche l’atto più semplice del lavarsi le mani, quando diventava possibile, assumeva un connotato quasi mistico. La corrente è saltata sia durante un’operazione a cuore aperto sia durante la notte successiva, quando i bambini erano intubati.”

È stato proprio in sala operatoria, senza corrente, senza un generatore a supporto, senza l’apparecchiatura necessaria a monitorare lo stato fisico di un bambino che stava subendo un intervento al cuore, che Veronica ha capito: salvare una vita esige di saper andare oltre.

“Io non so se tutto questo ha un senso, so solo che in quei momenti, quando la tecnologia che dovrebbe supportarti viene meno, puoi fare affidamento solo su te stesso e sulle persone che ti stanno accanto. La cosa che mi ha colpito è il fatto che il personale sanitario ha continuato a lavorare come se nulla fosse: senza battere ciglio, senza titubare, senza lamentarsi.”

 

Vedere un cuore che ricomincia a battere. E oltre.

Durante la missione sono tante le cose a cui si cerca di dare un senso, ma, quando si vedono dei bambini innocenti soffrire, diventa forte la sensazione di essere da un lato impotenti, dall’altro un po’ responsabili rispetto a quanto succede nei Paesi più poveri del mondo.

“Inizi a ragionare in modo diverso: ti chiedi che cosa hai fatto fino a oggi per mettere a disposizione dei bambini, di tutti i bambini, un mondo migliore. Anche se vivi a chilometri di distanza, quello che succede in Zambia è come se succedesse qui, perché il mondo è uno solo, quindi siamo tutti responsabili. Se il bambino ha una malformazione congenita al cuore, è colpa della natura che non ha fatto il suo dovere. Se però questo bambino non può essere operato, per qualsiasi ragione non imputabile al suo stato fisico, c’è un problema.”

Le operazioni eseguite dai medici volontari del programma Cuore di Bimbi sono di due tipi: “a cuore aperto” e di emodinamica. Il loro lavoro però va oltre l’operazione al cuore: accompagnano i bambini cardiopatici e le loro famiglie anche nelle fasi pre e post operatorie e formano il personale sanitario locale, per renderlo il più possibile autonomo nel trattamento delle cardiopatie infantili.

Allo stesso modo l’esperienza di Veronica ha comportato assistere alle operazioni, ma anche molto altro.

“Si è trattato di passare del tempo con i bambini prima che fossero sottoposti all’intervento, stare con le loro famiglie, assistere il personale sanitario nella fase preparatoria. Essere in sala operatoria a pochi centimetri da loro e alla fine vedere i loro cuori stare meglio e ricominciare a battere. E poi ancora vivere la tensione del postoperatorio, quando il corpo del bimbo deve riprendere la sua normale funzionalità, quando le famiglie ti corrono incontro per sapere come stanno i loro bambini e tu non puoi dire né fare nulla, in quanto non ne hai la qualifica. E quando i bambini si svegliano in stato confusionale: alcuni piangono per il dolore, altri perché la mamma non è lì con loro.”

È anche guadagnarsi la fiducia di bambini che non capiscono esattamente che cosa stia succedendo e che cosa debbano affrontare, ma che sono stanchi di vedere ospedali e medici e di non stare bene.

 

Tutti possiamo fare la differenza, a partire da un palloncino

Il personale sanitario è senza dubbio fondamentale nelle missioni del programma Cuore di Bimbi: i medici volontari sono il punto di collegamento tra la scienza e la vita. Eppure, nel nostro piccolo, siamo tutti utili, sempre e dovunque. E anche un palloncino donato può fare la differenza.

“È straordinario il fatto che un palloncino abbia cambiato l’umore di una bambina, che con maggiore serenità ha affrontato la visita cardiologica, e di conseguenza anche quello della sua mamma, che, con un sospiro di sollievo, per una volta non ha visto la figlia piangere. È la dimostrazione che siamo tutti connessi e che l’obiettivo non viene raggiunto dal singolo, ma dall’unione delle volontà e dei gesti di ognuno di noi. Gesti che, seppur piccoli, creano un concatenarsi di eventi positivi.”

 

Quello che resta e quello che ancora deve continuare

Al termine della missione Veronica ha portato con sé lo sguardo, il nome, le storie dei bambini che ha incontrato.

“Credo che sia giusto raccontare che grazie a questo progetto moltissimi bambini ce l’hanno fatta e oggi hanno un cuore sano. Credo che sia giusto raccontare anche di un bimbo di dieci giorni, notato da una neonatologa della missione: la sua operazione non era in programma, ma, girando in reparto, la dottoressa ha individuato il suo stato critico e lo ha portato in sala operatoria.”

Tanti altri bambini con il cuore malato aspettano il nostro aiuto per essere operati. Veronica lo sa, lo ha visto, ed è per questo che la sua esperienza è solo all’inizio e – come ci ha raccontato – deve continuare. Esattamente come la nostra.